Articolo
sul n. 81 di “Dirigenza Nuova”, Ottobre 2004.
Ci sono persone che, quando odono
qualcuno dire la verità in pubblico, sorridono sotto i
baffi compiaciute: si compiacciono, infatti, di non essere tanto ingenue o
stupide da dire quello che realmente pensano e, inoltre, di saper esprimere ciò
che “conviene” a seconda dell’occasione e delle circostanze.
Eppure, questo spontaneo senso di
compiacimento è un palese falso: non potendo esse reggere il confronto con la
verità e con la grandezza, seppur minima, di chi la proferisce, preferiscono
inconsciamente consolarsi focalizzandosi sul fatto che dal loro silenzio, o dal
loro complice assenso, non riceveranno alcun nocumento.
Ad un certo punto della storia umana, fu chiesto ad un uomo,
ingiustamente sotto giudizio e che diceva di essere venuto per rendere
testimonianza alla verità: “che cos’è la verità?”. A questa domanda in
quell’occasione non fu data risposta. Quell’uomo fu condannato a morte e
giustiziato. Alcune persone, pur pavide, hanno pagato con la morte, ingiusta e
violenta, il sostenere che quell’uomo era risuscitato e che aveva affermato,
tra l’altro, quando era in vita: “io sono la Via, la
Verità e la Vita”.
Ebbene, i fatti e la storia ci dicono
che i regni ed il potere di coloro che condannarono quell’uomo
finirono alcuni secoli dopo.
Coloro che, invece, ne seguono il
pensiero e gli insegnamenti continuano tuttora ad
essere presenti a distanza di duemila anni!
A quelle persone che hanno bandito la
verità dalla loro vita (e anche a ciascuno di noi quando sceglie la via
dell’opportunità rispetto a quella della verità), bisogna ricordare che le
“costruzioni” basate sulla menzogna non hanno futuro; anzi esse spesso hanno un
termine molto breve, strettamente legato al breve lasso di
tempo in cui i “costruttori” conservano la loro efficienza fisica.
Quando questa viene meno (e viene meno; e talvolta ben prima della morte) le
loro idee vengono presto accantonate.
E sì, perché, nonostante oggi si cerca
così sfrontatamente di volerlo negare, la vita ha un suo ciclo, cui nessuno può
sottrarsi. E sono molto più apprezzabili quelle
persone che si fanno da parte, quando è arrivato il loro momento, per far
spazio alle generazioni successive, rispetto a quelle che si illudono - anche
sulla base del consenso (falso) di chi le circonda – di essere indispensabili,
e di rimanerlo per sempre.
E, in ogni caso, anche se ciò può in
qualche occasione pur essere vero, sorge il legittimo dubbio che queste persone
abbiano lavorato molto per se stesse e poco per gli altri.
La differenza sostanziale fra i due
atteggiamenti è semplice ma di grande rilevanza: nel primo caso si attribuisce
dignità (e grandissima stima) alla propria persona per il solo fatto di
esistere; nel secondo caso la propria dignità e la propria stima sono legate al
ruolo svolto.
Personalmente, preferisco attribuire
dignità alla persona!
E, per me, fra un anziano malconcio che
incontro in mezzo alla strada (o un bambino negro con la pancia che gli scoppia
per la fame) e un personaggio di successo, o che occupa un ruolo ritenuto
importante, non c’è nessuna differenza: essi hanno la stessa dignità; anzi
guardo con più tenerezza chi sta in una condizione peggiore.
E quando il grande personaggio si
spoglia della sua spesso ipocrita e casuale (solo casuale!) veste, trova in me
molta più considerazione, in quanto persona più
vera!
Rocco Messina
P.S. Non si pensi che queste considerazioni
siano rivolte principalmente al nostro universo aziendale; esse vanno ben
oltre!