Sono a Treviso. E’ una bella e soleggiata domenica d’inverno, anche se fredda. Sono influenzato e non mi sento molto bene. Mi piacerebbe uscire per prendere una boccata d’aria ma devo rimanere a casa per cercare di recuperare: domani dovrò essere assolutamente presente in ufficio.

Anche se non grave, lo stato di malessere fisico mi provoca uno stato di debilitazione e un vuoto mentale. Se sono interpellato dai miei per un motivo qualunque, reagisco in maniera seccata. Ho solo voglia di scomparire per un po’. In qualche momento di minore pena ho comunque una percezione della realtà attenuata, come se fosse filtrata.

Il lavoro! Pur sostenendo in maniera convinta che “lavoro per faticare di meno”, nel senso che cerco di individuare automaticamente le soluzioni appropriate per rendere il lavoro più spedito, alla fine le continue incombenze e le responsabilità mi assorbono e consumano completamente; esageratamente troppo!

Utilizzo ormai tempo il principio del multitasking, proprio dei computer, facendo più cose contemporaneamente e bene. E’ diventata purtroppo un’abitudine iniziare un’attività e, mentre attendo da altri la risposta per proseguire, cominciarne una seconda, e poi una terza, e così via.

Non sono in grado di dire quante pratiche sono capace di gestire contemporaneamente. So solo che il livello di efficienza mio personale e dei miei collaboratori è veramente fuori dal normale.

Mi sento scoppiare la testa e sono preso da un’irrefrenabile frenesia. Vorrei evadere!

Chiudo gli occhi per qualche secondo, poi li riapro, ma la mente non c’è.

Casualmente lo sguardo cade sulla cornice esposta nel corridoio, c’è la foto di qualche anno fa che ritrae la lunga e deserta spiaggia del Mingardo, sulla strada fra Marina di Camerota e Palinuro. Richiudo gli occhi e istantaneamente mi catapulto in quell’incomparabile scenario.

  Pur essendo nel mattino inoltrato, la spiaggia è solitaria, come spesso accade dal tardo autunno a metà primavera. Dalla strada raggiungo con calma la battigia e mi fermo di fronte al mare, immenso e tranquillo, mentre impercettibili onde ritmicamente accarezzano la sabbia.

Solo quando gli occhi e l’animo si sono finalmente persi in quell’orizzonte, che mi rasserena completamente, comincio a ruotare lentamente lo sguardo verso destra. Il mare progressivamente scompare per fare spazio all’alto promontorio di Capo Palinuro e alla sua costa stupenda: s’intravvedono lo Scoglio del Coniglio e l’Arco Naturale. Poi la spiaggia si mostra in tutta la sua estensione; il mare a sinistra, mentre sulla destra si delineano la strada litoranea e, appena oltre, il costone roccioso. La prospettiva ora è molto simile a quella della foto. Continuo a voltarmi: gradualmente la vista della sabbia e dei cespugli si perde e vedo solo la strada e, di fronte, il costone roccioso macchiato dalla vegetazione spontanea.

 

Poi, mentre la roccia si sposta sempre più sulla sinistra, di fronte è nuovamente in evidenza la strada deserta e le piccole gallerie scavate con le mine nelle nere e frastagliate rocce laviche. Si tratta forse di formazioni provocate da un’antica eruzione del vulcano Palinuro o del Marsili, sommersi a poche centinaia di chilometri dalla costa e di cui molti ignorano l’esistenza. Ancora più a destra si presenta di nuovo la spiaggia, ora in direzione di Marina di Camerota, meno larga e spezzata dalle rocce che arrivano sino al mare. Quelle più prossime all’acqua sono diventate perfettamente curve e lisce. Quando bagnate dalle onde diventano lucenti, mentre nelle ore più calde dell’estate, quando è impossibile resistere a piedi nudi sulla sabbia, ci si potrebbe cucinare sopra!

L’ultimo scorcio si apre sulla costa verso Marina di Camerota e di nuovo, a perdita di vista, sul mare.

Questo posto è incantevole per la sua natura selvaggia e incontaminata e per essere così a portata di mano; per poterselo godere in piena solitudine. Chissà cosa sarà stato settanta anni fa, quando non c’era neanche la strada ed era raggiungibile solo via mare!

Nei pressi di Palinuro, poi, sulla strada che va verso Caprioli, nella località Saline, c’è un breve tratto di mare non visibile dalla strada che gli abitanti del luogo chiamano il “mar morto”: si tratta d’innumerevoli piccoli crateri di evidente formazione lavica dai contorni appuntiti e taglienti, che formano una barriera fra la sabbia e il mare. In quel tratto c’è anche una piccola spiaggia, detta del “mar morto”, di fronte alla quale si sviluppa una piccola piscina naturale di acqua di mare dove i bambini si possono divertire in piena tranquillità.

Il mio animo continua a deliziarsi in quest’ambiente, di cui m’innamorai a prima vista circa trent’anni fa.

E’ un habitat d’incomparabile bellezza e di relativa instabilità. Pur essendo immutato da secoli, la presenza di vulcani sommersi e la forza del mare ne potrebbero ridisegnare drasticamente i contorni.

M’incammino ora lentamente sulla destra, in direzione di Capo Palinuro, lasciando le mie orme sulla sabbia immacolata.

Mi sono rasserenato. Sono riuscito finalmente a ritagliarmi una sosta nella quotidiana corsa verso l’inconscio, cui partecipo insieme ad una immensa folla anonima. Ho abbandonato anche il multitasking. Mi prende l’ardente desiderio di assaporare pienamente ogni singolo attimo, ogni situazione, ogni rapporto: fermare tutto per poter finalmente ricominciare a vivere!

Spesso del vissuto di una giornata non rimane alcun dettaglio; altre volte un solo incessante pensiero che finisce per stressarci. Capita anche che le occasioni più piacevoli diventano un attimo fuggente, di cui perdiamo presto il ricordo.

Quotidianamente ci tuffiamo nelle nostre occupazioni che ci sembrano sempre uguali e monotone, ma che in realtà si svolgono in un contesto sempre rinnovato. Non c’è un solo momento che possa riprodurre quello precedente!

Non più fretta con me stesso e con gli altri. Non più incontri con parvenze di essere umani, di cui si sovrappongono le sembianze e con i quali non c’è né tempo né modo di interloquire e relazionarsi veramente!

Essere se stessi! Non reprimere le proprie legittime aspirazioni, soprattutto quando queste non intaccano quelle degli altri o, ancor più, quando la loro realizzazione potrebbe contribuire a rendere migliore questo pazzo mondo.

Avere la possibilità di instaurare un rapporto con la persona che hai di fronte, non secondo violenti e incessanti segnali relazionali, ma in una comunicazione serena, personale ed esclusiva.

Ascoltare, cogliere e interpretare quei particolari del volto e quelle sfumature del portamento che spesso costituiscono l’essenza, e che evidenziano molto di più e molto più profondamente di quanto non possa la comunicazione verbale.

Sintonizzarsi sulla medesima lunghezza d’onda per fermarsi, riflettere, capire. Il silenzio, dunque, per iniziare la relazione.

Spesso la quantità delle parole pronunciate è tanta da annullarne il significato e, quando esprimono qualcosa, il loro senso non è quasi mai da ricercare nel significato letterale. Tante parole, suscitate strenuamente non da ciò che si dovrebbe realmente dire, ma da ciò che si vuole ottenere dall’altro: una ridda d’incoerenze e di contraddizioni che, una via l’altra, escono dalle nostre labbra prima di passare per la mente e, soprattutto, per il nostro intimo. Un esprimersi in codice, essendo convinti che l’interlocutore sia sempre in grado di decifrare e d’intendere.

Basta! Guardarsi negli occhi, percepire vicendevole accoglienza e benevolenza, stringersi le mani. Infine, pronunciare lentamente le parole per trasmetterle in maniera cosciente, insieme ai sentimenti.

Sarebbe bello, ma non ne abbiamo il tempo. Siamo quasi tutti destinati ad accorgerci, quando la vita è già trascorsa, di aver vissuto tante esperienze senza averne assaporata pienamente nessuna.

Quante persone ho incontrato frettolosamente nella mia vita! Quante volevano esprimere affetto nei miei confronti e non l’ho permesso; o richiedevano attenzione e non ne ho concessa. Quante volte ho realmente sentito di vivere, non cadendo nell’abitudinario?

E’ un po’ che cammino e inverto la direzione, tornando indietro.

Dato che ognuno di noi è frutto dell’educazione che riceve, è strano che, in una società culturalmente evoluta com’è ritenuta la nostra, non sia stabilito a quali valori e a cosa educare la persona. Ora, se non è chiaro l’obiettivo, con quali criteri si progettano i modelli educativi? Alla fine, specie nell’attuale mondo occidentale, ciascuno di noi finisce per essere la sintesi di un’accozzaglia di segnali provenienti, alcuni casualmente altri no, da ogni direzione. E molti di questi, i più efficaci e ammalianti, hanno un solo subdolo scopo: attirare l’attenzione a fini di lucro, o anche peggio! Ciascuno si trova a essere quello che è, mentre si diffonde un imperativo: mai fermarsi; mai fermarsi a chiedere chi si è; e dove si sta andando. Prenderne coscienza, forse, ci potrebbe atterrire!

E dunque, vivere come degli automi. Non capire per sopravvivere.  Non vivere per niente, convinti che si è tanto vissuto! Attraversare la vita come privi dei cinque sensi; con il sesto (essere coscienti di esistere) inibito e il settimo (l’Amore) spento.

Il nostro mondo, la nostra maniera di vivere, l’organizzazione della società occidentale, non sono le uniche possibilità. Ce ne sono molte altre meno note, oltre le orientali, le meridionali e le settentrionali. Ce ne sono tante e diverse a livello personale.

Per andare avanti tutti ci illudiamo che il nostro modo di vivere è il migliore. Senza convincerci che il migliore sarebbe solo quello in cui tutti si sentono realizzati e in cui tutti riescono a entrare in relazione con tutti.

 

Ora mi sento bene, ben disposto nei confronti di me stesso, della natura e dell’umanità; e quest’ultimo sguardo che lancio al paesaggio intorno, in cui s’è inserita in lontananza una persona che ha rotto la solitudine di questo momento, non c’è dubbio, è di tenerezza e d’Amore.

 

Rientro in me stesso, nella mia stanza. Davanti a me queste annotazioni, che poi sistemerò. Ora posso ricominciare!

 

Gennaio 2003 (revisione del 3 giugno2014).

 

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