Lucida follia.
Nella vita non
ci si dovrebbe fermare mai; altrimenti si corre il rischio di accorgersi che si
è presi da molte occupazioni, senza che si stia assaporando intensamente nulla!
Preso dal
lavoro, era passato un po’ di tempo dalla morte di mio padre e non avevo avuto
il tempo di spulciare nel suo computer per vedere se ci fosse qualcosa
d’importante.
Erano ormai
due giorni che andavo avanti in maniera serrata, avevo eliminato tutti i file
inutili, mi ero copiato quelli d’interesse per la famiglia, le foto, i filmati;
per ultima mi era rimasta da esaminare una cartella denominata “Scritti
personali”, in cui erano contenuti diversi documenti che mi ripromisi di
verificare in un momento successivo. Tuttavia un file Word, denominato
“Scusatemi”, colpì la mia attenzione e lo aprii subito. Si trattava di una
lettera:
“A Romilda, Stefano e Daniela.
Scusatemi. E grazie!
Ciascuno di noi, quando fa il bilancio della propria vita, ha tante
cose di cui chiedere scusa. In caso contrario, non apparterremmo agli esseri
umani.
Non voglio tediarvi scusandomi per le ragioni per le quali ogni
persona, nel fare il bilancio della propria vita in prossimità della dipartita,
ritiene d’essere stata insufficiente: incomprensioni, arrabbiature, errori,
azioni da farsi perdonare e cose di questo genere. Tutto ciò è scontato.
In un mondo sempre più dominato dai numeri e dagli indici, io vi
chiederò scusa per un importo tondo, preciso, netto: sessantamila euro.
Sessantamila euro che vi ho sottratto forse quando ne avreste avuto più
bisogno. A quel tempo con quella somma ci si comprava un’automobile importante
oppure la quarta parte di un appartamento nuovo di cento metri quadri. Tale era
la cifra che mi sarebbe stata corrisposta in più dalla mia azienda se solo
avessi avuto la pazienza di lasciare il lavoro non il 1° febbraio 2009 ma il 1°
gennaio 2010: detratti i giorni di ferie, sarebbero rimasti meno di dieci mesi di presenza! Avrei potuto
usufruire di periodi di malattia, giacché alla mia età era facile poterne
individuare i presupposti, ma non era nel mio stile. In oltre trent’anni di lavoro
le mie malattie non hanno superato complessivamente tre mesi.
In tanti avevano cercato di convincermi a rimanere. Alcuni sinceramente
interessati al mio interesse, altri perché non potevano sopportare che ci fosse
qualcuno che avesse il coraggio (o la lucida follia) di rifiutare una somma di
denaro così importante. Diversi furono gli argomenti con i quali mi
sollecitavano, tra i quali anche l’attenzione verso moglie e i figli, ma io
niente. Persino dalla Direzione Generale mi aveva telefonato un anonimo collega
per farmi recedere dalla mia decisione: non mi bastò.
A parte il fatto che la normativa previdenziale andava di giorno in
giorno peggiorando, e non volevo aver sorprese, io chiedevo preliminarmente la
considerazione e il rispetto dovuti per il lavoro svolto in maniera encomiabile
e fuori dall’ordinario dal primo all’ultimo giorno di lavoro. Affermazione
questa che è possibile fare solo quando si è smesso di lavorare e si può fare
un bilancio della propria vita lavorativa.
Quanti colleghi (e conoscenti) avevo visto eccellere solo nel periodo
utile per le promozioni o in concomitanza delle selezioni per gli avanzamenti
in carriera!
Non sopportavo di essere stato accantonato sia nei riconoscimenti di
carriera sia nelle aspirazioni in materia di residenza di lavoro rispetto ad
altri colleghi che avevano goduto di percorsi facilitati, senza meritarlo. Non
potevo digerire di essere stato dimenticato per le une e per le altre.
Il colpo definitivo mi fu dato da un’ispezione interna, che pur non
evidenziando irregolarità e reali disservizi, e neppure il mancato rispetto
delle direttive aziendali, disconobbe una delle mie principali prerogative: la
capacità organizzativa! Capacità testimoniata, appunto, dalla mancanza di altre
contestazioni: come si può aver organizzato male un ufficio se dalla sua
conduzione non si evidenziano anomalie di sorta?
Un unico rilievo mi si sarebbe potuto muovere sul piano
dell’organizzazione, ma a livello personale e non aziendale: non aver curato in
maniera sufficiente e adeguata i miei interessi!
Risposi ai rilievi ispettivi per iscritto, rappresentando che gli
ispettori, sulla base dei risultati del mio ufficio, non avevano saputo o non
avevano voluto vedere quella che era la realtà dei fatti.
Avvicinandosi il 1° febbraio 2009, data in cui non avrei potuto più
rinunciare alla decisione presa, ero in parte preoccupato in parte ebbro di contentezza!
Dicevo ai colleghi: “Mi sembra di essere in quei film in cui si vendevano gli
schiavi al miglior offerente”. “Mi sento uno schiavo e sto comprando, a caro
prezzo, la mia libertà”.
E non solo di libertà materiale si trattava, riferita al tempo libero,
quanto piuttosto di libertà culturale e ideale: essere libero da vincoli e
visioni aziendali non condivise; poter fissare la mia attenzione e dedicare
tempo ed energie laddove avessi ritenuto più giusto e gratificante!
Mi rendo conto che qualcuno
abbia pensato che fossi mezzo matto. Fatto sta che nel mondo di oggi,
considerato il pessimo risultato delle attività delle persone ritenute savie, preferisco
schierarmi fra i pazzi. Perlomeno i pazzi, per definizione, non hanno
responsabilità.
Nel mio piccolo ho cercato di combattere per la verità e la giustizia,
dovunque mi sono trovato, dovendo impegnarmi a tenere a bada, con l’aiuto di
Dio, le mie inclinazioni negative, pur presenti in ogni persona. Se a essere
premiate sono esclusivamente l’ingiustizia, la menzogna, l’ipocrisia e la
perversione, lo ripeto, preferisco essere annoverato fra i pazzi: soggetti
schiettamente incapaci e manifestamente non responsabili!
Scusatemi perciò e ancora grazie
per aver condiviso senza riserve la mia decisione. Grazie per avermi
assecondato nel poter soddisfare, in modo speciale e personale, la mia intima
aspirazione di felicità. Scusatemi all’infinito!
E quando leggerete questo foglio sappiate che, trovandomi
nell’aldilà, che io credo fatto di vita e relazioni con l’Eccelso e con tante
grandi anime, chiederò per ciascuno di voi, incessantemente, almeno
sessantamila attimi di piena felicità!”.
Mi era passata di mente la
decisione che aveva assunto a quel tempo mio padre. Certo, mi ero dichiarato
d’accordo, insieme a mia madre e mia sorella. Sapevamo quanto gli costava
dirigere con competenza, correttezza e imparzialità il suo ufficio vedendo
premiati i comportamenti di chi invece era dedito a curare esclusivamente
relazioni e formalismo; di chi s’impegnava a fondo solo quando si trattava di
trarne vantaggi o benefici e di chi, parlando esplicitamente, pensava più ai
cavoli propri che agli interessi dell’azienda. Aveva custodito le valutazioni
di tutti gli anni di servizio, che lo avevano sempre collocato ai massimi
livelli di prestazione. A proposito dell’ispezione interna, mi riferì di aver
consegnato alla sua Direzione una lettera in cui contestava in maniera puntuale
e documentata le visioni e le conclusioni degli ispettori.
Fatto sta che noi ci dichiarammo
d’accordo con lui in virtù del fatto che vedevamo che non viveva più bene al
lavoro e che quegli ulteriori undici mesi li avrebbe vissuti come
un’umiliazione. Nemmeno gli suggerimmo di mettersi in malattia: non era per noi;
ci aveva educato alla linearità.
Se avesse voluto imbrogliare
o rubare avrebbe fatto tranquillamente il delinquente, non sarebbe andato a
lavorare. Gli avrebbe reso di più, fatto perdere meno tempo, spendere minori
energie mentali.
Agire in contrasto con le
sue convinzioni lo faceva vivere male. E quello che sopportava meno era: vivere
male. Specie se non c’era una causa obiettiva e ineliminabile!
Con quel suo gesto voleva
far capire a suo modo al datore di lavoro (ma lo capì solo lui) che rinunciava
a una bella somma di denaro, e dunque a prostituirsi, pur di non subire più
ingiustizie e mortificazioni e pur di tornare a essere libero. Tra l’altro era
un convinto assertore della circostanza che coloro che dopo tanti anni di
servizio vogliono andar via da un’azienda, sono quelli che si sono prodigati
senza risparmio e sono stanchi. Mentre quelli che rimangono sono quelli che se
la godono; o che non vogliono perdere privilegi e prerogative connessi alla
funzione rivestita.
Aver letto questa lettera mi
ha messo in crisi. Ecco perché non ci si dovrebbe mai fermare nella vita. È
vero che me lo diceva quando ancora c’era: “La balorda e ipocrita società che
si è andata formando nel mondo occidentale richiede che sempre di più, per
sopravvivere nei luoghi di lavoro, si impari a recitare, a modificare se stessi
e i propri comportamenti per non soccombere”. “Se si esce allo scoperto,
mostrandosi per quello che si è, si diventa vittime”. E aggiungeva: “Il guaio è
che una volta che la recitazione funziona, nel senso che fa vivere meglio o
risolve i contrasti, le persone istintivamente cominciano a replicare lo stesso
ruolo in tutti gli ambiti della vita, anche quelli più intimi e familiari”. “E
quando si comincia a recitare anche nell’ambito privato, è l’inizio della fine;
e delle sventure”.
Mi sto chiedendo quanta
recitazione sono costretto a praticare nella mia vita e, solo a pensarci, mi
vengono i brividi. Comunque, ciascuno non può che vivere la propria vita, mio
padre ha vissuto la sua, io la mia.
S’è insinuata, però, una
pulce nell’orecchio e spero che anche per me possa arrivare il giorno in cui iniziare
a scalfire la crosta di cui mi sono dovuto progressivamente dotare.
E, forse, non
si tratta di un’aspirazione solo mia, ma del mondo intero: davvero non se ne
può più!
P.S. La vicenda di mio padre
è reale e documentabile.
Novembre 2012 (rivisto il 14 giugno 2014)