Il mio ‘68.
Per chi non lo sapesse, per
’68 s’intende quel periodo che iniziò verso la fine degli anni sessanta (1965 circa)
e proseguì con diversi effetti e intensità negli anni successivi.
Nel decennio precedente,
quello del cosiddetto boom economico, la vita era stata abbastanza serena e la
gente, anche quando relativamente indigente, viveva sostanzialmente tranquilla.
Ciascuno cercava di migliorare basandosi soprattutto sul proprio impegno
personale. L’organizzazione politico-sociale era ritenuta complessivamente
accettabile e non si registravano disordini, se non sporadicamente.
La situazione iniziò a
cambiare in tutti gli ambiti sociali e, dalla critica costruttiva tesa a
migliorare, si diffuse una contestazione fine a se stessa: andava cambiato
tutto, ma le soluzioni alternative, quando presenti, erano peggiori di quelle
denigrate. Ne è testimonianza il fatto che negli anni seguenti il clima
socio-politico del nostro Paese non è mai stato migliore di quello del boom
economico. L’Italia è cresciuta in molti settori ed è diventata una nazione
moderna ed evoluta; ma la gente non ha più conosciuto la serenità e la fiducia
nel futuro che visse in quel decennio particolare.
Nel ’68 la
contestazione era diventata una specie di moda, una maniera per mettere in
difficoltà e scalzare chiunque avesse posizioni di potere, anche nelle scuole e
nelle Università.
Soprattutto la
sinistra, e in particolare il partito comunista, fomentava una parte dei
giovani che, in tal modo, da una parte si svincolava dalla pesante
autoritarietà dei genitori e dalla rigorosa visione della Chiesa cattolica in
materia di libertà sessuale, e dall’altra intravvedeva una facile scorciatoia
per soddisfare le proprie ambizioni.
E’ mia
opinione che il movimento abbia provocato più danni in Meridione che al Nord
d’Italia.
Nel Nord,
anche se si registrarono i fatti di sangue più violenti, furono principalmente
coinvolti un numero limitato d’intellettuali, sulle teorie dei quali si
svilupparono poi i movimenti eversivi.
In alcune
regioni del Sud, in particolare in Campania, lo spirito di contrapposizione si
diffuse principalmente tra la popolazione e la gente comune che, anche senza
averne titolo, contraddiceva chiunque e qualsiasi idea, a prescindere. Ho il
fondato dubbio che l’odierna maggiore ingovernabilità della Campania rispetto
alle altre Regioni del Nord dipenda in buona parte dai guasti del movimento
contestativo.
Se si andassero a consultare
le statistiche economiche, si potrebbe verificare come la Campania, ad esempio,
prima del ’68 avesse un posto in graduatoria molto più elevato di quello
attuale.
Nei primi
giorni di aprile del 1969 tutti i partiti e i sindacati presenti a Battipaglia
proclamarono lo sciopero generale. Il motivo della manifestazione fu la
chiusura di diversi opifici industriali (zuccherificio, tabacchificio, impianti
di trasformazione alimentare per la lavorazione dei prodotti coltivati nella
zona) e il loro trasferimento al Nord. Nell’aria si respirava un’atmosfera
tesa. Gli organizzatori persero ben presto il controllo della situazione.
La mattina
dell’8 aprile, dall’ampio passaggio a livello che divideva Via Rosa Jemma dalla
più centrale via Roma, una marea di gente, occupando tutta la carreggiata, si
diresse verso il Municipio, in Via Italia. La maggior parte proveniva da
Taverna Maratea e Taverna delle Rose, all’epoca due dei rioni più periferici e
degradati di Battipaglia, ma presto si unirono a loro i negozianti e gli operai
del centro: fu un vero e proprio tumulto.
Io,
diciottenne, appoggiato al muro a fianco del portone dell’ex Palazzo Ragone in
Via Roma, dove abitavo, osservavo quella folla minacciosa venir su e non riuscivo
a rendermi conto di ciò che accadeva. Persone semplici e tranquille si erano
trasformate all’improvviso in un’orda priva di controllo.
Il giorno successivo, in
alcuni scontri con le forze dell’ordine morirono due persone, uccise
accidentalmente dagli agenti impauriti per gli attacchi dei dimostranti. La
manifestazione, infatti, fu pilotata ad arte da alcuni ignoti personaggi che
non disdegnarono di coinvolgere anche gruppetti di ragazzini, attivi nel
lanciare pietre contro la polizia.
Sino a quel
momento non mi ero mai reso conto che qualcosa di serio non andasse per il
verso giusto sia a Battipaglia sia nel nostro Paese. E ciò non tanto perché non
vi fossero problemi da risolvere, ma perché non mi sembrava fossero frapposti
ostacoli a una dialettica aperta e vivace purché seria e costruttiva. Anche a
scuola dichiaravamo apertamente la nostra intenzione di trasformare e
migliorare la società, senza che in questo fossimo minimamente scoraggiati dai
professori. Anzi, al contrario.
Insomma, avevo l’impressione
che non ci fosse bisogno di fare alcuna rivoluzione per cambiare in meglio. Gli
scioperi scolastici dell’epoca raramente avevano motivazioni valide, se non il
contestare per partito preso e il poter approfittare di una giornata di sole
insieme ai compagni e alle compagne di classe.
Ero un giovane di belle
speranze: a scuola e nello sport me la cavavo bene, lavoravo nello studio
fotografico dei miei genitori e anche nelle attività della Parrocchia ero ben
considerato. All’epoca, poi, l’aspetto fisico era in second’ordine rispetto
all’impegno, all’intelligenza e alle doti morali; e il fatto che non fossi alto
e di bell’aspetto non mi penalizzavano.
Non essendovi
altri luoghi di aggregazione, ci incontravamo nei locali dell’unica Parrocchia
allora esistente, Santa Maria della Speranza. Fino a qualche anno prima eravamo
costretti a giocare a pallone per le strade, segnando le porte con dei sassi.
Il nostro incubo non erano le auto, perché non ne circolavano molte, ma i
vigili urbani i quali, non avendo altro di meglio da fare, sistematicamente si
dedicavano al sequestro dei palloni tra un fuggi fuggi
generale dei ragazzini.
In quegli
anni era attivo a Battipaglia un prete di origini vicentine, don Giuseppe
Guglielmoni, formidabile organizzatore e catalizzatore di giovani, che fondò la
polisportiva Spes e, con i contributi raccolti da diversi
benefattori, fece costruire nei pressi del campo sportivo comunale S. Anna
appositi campi di gioco per il calcio, il rugby, la pallavolo e la
pallacanestro.
Nelle
frequentissime occasioni d’incontro, dentro e fuori dalla Parrocchia, ci si
parlava e ci si confrontava molto, essendo meno esposti agli influssi dei mass
media rispetto ai giovani di oggi.
I nostri
coetanei di sinistra, specie comunisti, anche se in minoranza, presentavano le
loro tesi ben determinati e ostentavano grande sicurezza. Con affermazioni
false o illogiche spesso zittivano noi giovani che simpatizzavano per la
Democrazia Cristiana, all’epoca Partito di maggioranza.
Molti di noi
non potevano rinunciare al richiamo ai valori cristiani, della cui validità
morale si era arciconvinti.
Rammento che i nostri amici
di sinistra sostenevano in maniera convinta le tesi che venivano loro inculcate
dai capi attivisti: “Nel duemila la Chiesa cattolica non esisterà più!”. La
storia ha dato ragione della loro stupidità, oltre che della loro mala fede.
Sinora non è scomparsa la Chiesa cattolica, ma il Comunismo che loro
propagandavano; prima nell’Unione Sovietica, poi altrove.
Per inciso, nei decenni
successivi furono positivamente demistificati anche il liberismo e il
consumismo e i loro devastanti risultati.
Intanto, i giovani di destra
erano ancora legati al fascismo e alle vicende dei loro padri, senza che se ne
potesse discutere. E sebbene per lungo tempo furono una minoranza, nelle
frequenti occasioni di scontro fisico con quelli di sinistra erano addestrati a
battersi con gli avversari con altrettanta veemenza.
Noi moderati, pur
lamentandoci che molti dei rappresentanti della Democrazia Cristiana non erano
né democratici né soprattutto cristiani, difficilmente partecipavamo alla vita
politica, verso cui provavamo disgusto. Ora che ho sessant’anni posso dire che,
nonostante le tante elezioni cui ho partecipato, in rarissime occasioni ho
espresso un voto del tutto convinto. Nella maggior parte dei casi mi sono
dovuto accontentare di scegliere, in un quadro alquanto sconfortante, il male
minore! Finita l’epoca del boom economico, infatti, molti furbi entrarono in
politica non per il bene comune ma per sistemarsi economicamente e per tutelare
gli interessi di pochi individui. Fenomeno poi acuitosi nel tempo.
Intanto, sottile, subdolo e
finemente guidato, si era cominciato a sviluppare un altro fenomeno
destabilizzante che, a mio avviso, è stato quello che nel tempo ha contribuito
di più alla progressiva crescita della sinistra nel nostro Paese: lo sviluppo
di costumi sempre più libertini. Ho sempre sostenuto, infatti, con un’immagine
penso efficace, che per togliere gli italiani da sotto le tonache nere che
allora indossavano i preti, gli uomini di cultura di sinistra pensarono molto
intelligentemente di metterli sotto quelle delle donne.
All’epoca la
promiscuità fra i sessi era limitata e la castità dei costumi che si volevano
proporre come modello era alquanto esagerata.
A scuola, quando si studiava
il corpo umano, dalle gambe si passava direttamente al busto: ho impiegato del
tempo, e non a scuola, per capire cosa avessero le donne fra il busto e le
gambe!
L’opposto di quanto avviene
oggi. Lo stimolo erotico esagerato annulla, copre e sovrasta ogni altro valore,
persino la tutela dei bambini, della gioventù e della famiglia, prima cellula
della società. E ciò anche per il mero ritorno economico!
Le abitudini di vita della
massa furono indirizzate verso modelli che contrastavano quelli proposti dalla
Chiesa cattolica, provocando la dissociazione di molti dagli ideali di vita
cristiani. Negli ultimi cinquant’anni, infatti, si è avuto nel nostro Paese un
notevole calo del numero dei cattolici praticanti.
Un grande errore, che sta
ancora manifestando i suoi effetti, fu quello di non proporre un modello etico
che sostituisse quello religioso: si scivolò molto rapidamente da una società tesa
a elevati valori morali ad una priva di ogni riferimento culturale o morale.
Non nuovi ideali, ma assenza di valori, in un’assurda e deleteria relatività
che rese possibile, ammissibile e giustificabile ogni cosa, purché diretta al
soddisfacimento dei propri bisogni esclusivi; senza alcun riferimento al
rispetto delle prerogative degli altri.
In quegli anni m’iscrissi
all’Università: dire che era un casino è poco! Le lezioni e soprattutto le
sessioni di esame spesso saltavano per scioperi, occupazioni e assenze varie
dei professori. Per presentare una banale domanda in Segreteria si era
costretti a fare lunghe attese; salvo i molti furbi che non disdegnavano di
utilizzare scorciatoie. Quando si tenevano le assemblee, se si chiedeva prendere
la parola per sostenere opinioni fuori dal coro, veniva letteralmente strappato
il microfono dalla bocca! Ben presto si diffuse la moda del “sei politico” (il
diciotto all’Università), che significava diritto alla promozione per tutti a
prescindere dalla preparazione.
Non mi ci ritrovavo in quel
bailamme e dopo aver sostenuto seriamente una quindicina di esami presi la mia
solenne decisione: “A questo cesso di Università ci rinuncio; e se mi vorranno
vedere laureato, la laurea me la dovranno concedere honoris causa”. Fu una decisione avventata. Mai alcun ateneo nel
tempo ha mai lontanamente pensato che io fossi meritevole di una laurea honoris causa. Successivamente, ai
giorni nostri, ho cambiato opinione: con tutte le lauree honoris causa impropriamente e largamente distribuite, se anche
fossero così pazzi da concedermela, la rifiuterei.
Anzi rifiuto sin d’ora qualsiasi
titolo e voglio restare semplicemente il signor “nessuno”. In questa nostra
ingiusta società preferisco essere uno scarto piuttosto che uno dei protagonisti
decorati che ha contribuito alla costruzione di questa ingiusta e corrotta società!
Il ’68 ha poi continuato a
imperversare negativamente nella mia vita lavorativa.
Non solo perché ancor oggi
ne paghiamo le conseguenze collettivamente: alle classi di potere allora contestate,
si sono progressivamente sostituiti rappresentanti molto più indegni e deleteri
di quelli del tempo. Ovviamente non mi riferisco a chi onestamente si è
costruito il proprio futuro, ma a quelle mezze figure che, senza la politica,
gli imbrogli e la prostituzione, non sarebbero mai andate da nessuna
parte!
Ma anche perché, nel 1976,
sulla spinta rivendicativa della CGIL e dello slogan “siamo tutti uguali”,
subii una ristrutturazione delle carriere dell’Ente in cui lavoravo: illogicamente,
mi ritrovai ad essere declassato gerarchicamente rispetto ad altri colleghi che
erano stati assunti con un titolo di studio inferiore al mio, in virtù della sola,
maggiore, anzianità di lavoro.
Ci vollero più di quindici
anni perché, considerati i guasti prodotti, gli slogan sindacali si
modificassero dal “siamo tutti uguali” a favore del premio all’impegno e alla
produttività. Tuttavia, poiché non è facile misurare l’impegno e la
produttività dei singoli, ho sempre avuto il segreto sospetto che molti dipendenti
già avvantaggiati dal “siamo tutti uguali” sostenessero il nuovo slogan perché,
essendo progrediti in carriera, potessero beneficiassero di stipendi più corposi
rispetto agli altri colleghi che svolgevano le loro analoghe mansioni con un
grado inferiore!
Questa è la
mia visione del ’68. Se si tratti di fantasie o di un punto di vista obiettivo
su come cambiò il nostro Paese, lo lascio giudicare ai posteri.
Settembre 2010
(rivisto il 18 giugno 2014)