Il professor
G. Romano.
Quello che
accadde nei primi di ottobre del 1964 appartiene ai ricordi indelebili e lo
rammento ancora oggi con precisione.
Dalla scuola media
eravamo passati al primo anno delle superiori, al “Besta”
di Battipaglia e, novità delle novità, eravamo in una classe mista di 28
alunni; un terzo erano donne, finalmente! Dalla prima parte della mia vita le
coetanee erano rimaste totalmente fuori.
Eccetto le
prime due classi delle elementari, sempre e dappertutto divisi per sesso. Anche
in quella nuova situazione le ragazze sedevano a parte, nei primi banchi della
fila di destra, vicino alla porta.
Tuttavia a quell’epoca, pur essendo attratto dalla piacevole diversità delle
donne, e dalla grazia delle mie compagne, non avrei avuto dubbi: fra giocare un
partita pallone e loro, avrei scelto il pallone.
Avevamo tutta
l’energia e la stupidità dei quattordici anni, che in quei primi giorni di
scuola, con l’orario ancora provvisorio, si manifestavano in tutta la loro
esuberanza e chiassosità.
E poi,
ambienti nuovi, materie, compagni e professori nuovi: era tutto terribilmente
eccitante e noi pensavamo di essere i protagonisti indiscussi. Non nel senso che
non lo fossimo, la scuola era apposta per noi. Quanto nel senso che eravamo
convinti di essere noi a dettare le regole del gioco.
Finalmente,
dopo le prime due settimane di lezioni, comparve nell’orario provvisorio anche
la seconda lingua, lo spagnolo, verso cui istintivamente nutrivamo più simpatia
del francese.
Finita un’ora
di matematica, attendevamo curiosi l’arrivo del nuovo insegnante. Dopo un
minuto d’inutile attesa la curiosità scemò e nei quindici minuti successivi,
senza vigilanza, abbandonati a noi stessi, ci trovammo ben presto immersi in
un’orgia assordante: prima voci, poi grida, infine ululati, mentre alcuni
uscivano dall’aula e altri saltavano da un banco all’altro.
Dall’ultimo banco della fila
di sinistra, che avevo strategicamente occupato per essere meno controllato e
meno in vista, anch’io fornivo il mio modesto contributo alla causa insieme al
mio compagno di banco.
In
quell’atmosfera assordante, a un certo punto entrò in aula un tizio alto e
magro, sulla quarantina, con dei baffetti appena accennati e un viso smunto
dove spiccavano due occhi piccoli e scuri. Appena ricurvo in avanti e con
un’andatura un po’ ciondolante, che a noi sembrò comica, si avvicinò alla
cattedra, vi sbatté una cartella di pelle nera, e sedette in silenzio.
Avevamo avuto la conferma, o
perlomeno così ci sembrò, che a dettare le regole eravamo noi: continuammo
aggiungendo al baccano precedente risolini, sorrisi beffardi e sonore risate.
Non erano passati nemmeno un
paio di minuti, mentre noi degli ultimi banchi continuavamo imperterriti,
percepimmo che il clima generale si andava modificando. E in effetti, senza che
il professore avesse proferito una sola parola, i nostri compagni dei primi
banchi erano caduti in un silenzio tombale: nessuno fiatava. Ci volle ancora
meno perché quel profondo silenzio coinvolgesse noi e l’intera classe.
Solo dopo qualche anno ho
compreso che il professore, rimanendo in silenzio, aveva cominciato a fissare
in modo severo uno a uno ognuno di noi, a cominciare da quelli seduti ai primi
banchi. I suoi occhi piccoli e penetranti ficcati diritti nei nostri, come
lame, mostravano inequivocabilmente un saettante e immenso disprezzo per il
nostro modo di comportarci: non eravamo nemmeno degni che proferisse parola
alcuna! Gioco forza, man mano che egli andava avanti fissandoci si rimaneva
ammutoliti, se non annientati.
Come ottenne
il silenzio assoluto, il personaggio si presentò: “Sono il professor Gaetano
Romano, e sono l’insegnante di spagnolo; abito a Galatina in provincia di
Lecce.” Ci disse pure di aver vissuto in Sicilia e a Bologna.
Subito dopo
diede fiato a una tremenda ramanzina di grande valore morale, tutta tesa a
responsabilizzarci e a spingerci a perseguire i più elevati obiettivi
comportamentali e di studio. Si trattò della più severa, pesante e, insieme
rispettosa e positiva invettiva che mi sia stata mai rivolta; e penso che anche
i miei compagni sarebbero oggi della mia stessa opinione!
Di preciso, non ricordo una
sola parola di quello che disse. Ricordo solo che sia io che i miei compagni ci
sentimmo tutti meno che vermi.
Era andata via oltre
mezz’ora di lezione e oramai pensavamo che avremmo cominciato ad apprendere lo
spagnolo dalla lezione successiva. Non fu così. Alla fine dell’ora tutti
sapevamo declamare in spagnolo i giorni della settimana, chiedere o dire il
proprio nome, da dove provenivamo e dove vivevamo. Sono fra le uniche
espressioni di spagnolo che non ho mai più dimenticato.
Quella
mattina, tuttavia, avevamo visto solo l’inizio delle formidabili performance del
professore. Siccome da Galatina a Battipaglia il viaggio era particolarmente
disagevole, aveva ottenuto di poter concentrare le sue diciotto ore di lezione
in tre giorni, dalle 8,30 alle 14,30, dal lunedì al mercoledì, dopo di che
rientrava in Puglia per ritornare la domenica sera a Battipaglia. In realtà il
suo orario di lavoro andava ben oltre.
Quando avevamo
spagnolo la prima ora, pretendeva che, se non fossimo stati impediti dal
viaggio, fossimo in classe con quindici minuti di anticipo; ma lui era già
presente alle 8,10. Analogamente, le ultime ore erano protratte sempre di
dieci, quindici minuti. E si lavorava sodo!
Non gli fu difficile
ottenerlo perché suscitò in noi una tale ammirazione che ci sentivamo in
disagio nel non seguire le sue paterne indicazioni.
D’altronde, si percepiva
chiaramente che aveva una personalità forte, esercitata garbatamente nei
confronti del Preside, che ne condivideva i metodi, e in maniera più rude con
qualche altro collega. In particolare era divertente vedere quando c’era il
cambio fra il professore e l’insegnante di matematica. Non sapevamo se era
dovuto al fatto che l’insegnante di matematica era un po’ effeminato, ma il
professor Romano non lo sopportava e gli lanciava delle severe occhiatacce.
Né ci fu
qualcuno di noi che rimase indietro con lo spagnolo. Ogni lezione chiamava per
nome alla cattedra i meno dotati: “Antonio, venga
aquì, venga
aquì” diceva. E a furia di trattenerli alla
cattedra fece in modo che anch’essi, che avevano deficienze in altre materie,
qualcuno persino in italiano, diventassero bravi in spagnolo.
Già alla fine del primo anno
di lezioni ci assegnò come compito in classe un tema in spagnolo su Cervantes.
Il primo trimestre mi era andato male. Non avevo ancora il vocabolario e presi
quattro allo scritto e quattro all’orale. Nel secondo trimestre ebbi nove e
nove, lo stesso voto che presi al tema. Molto raramente mi capitò di
raggiungere lo stesso risultato nelle altre materie!
Un giorno portò in classe un
grammofono con dei dischi per farci ascoltare una conversazione in madre
lingua. Chiese al pur diligente bidello un riduttore perché la spina del
grammofono non si adattava alla presa elettrica. Dopo qualche minuto il bidello
tornò riferendogli che la scuola non era dotata di riduttori. Il professore
ribatté suggerendogli di chiedere in Segreteria l’importo per poterlo comprare.
Dopo altro tempo l’incaricato ritornò con la risposta: la segreteria non aveva
il denaro necessario. Contrariato, infilò nervosamente la mano in tasca, ne
trasse una banconota e chiese cortesemente al bidello di procurarsi il
riduttore. Dopo pochi minuti ascoltavamo il gracchiare di un disco in vinile
con una conversazione in spagnolo.
Una cosa che non sopportava,
poi, era quella di vederci bighellonare per strada, ancor più davanti ai bar:
se c’incontrava, esercitava il suo forte ascendente perché andassimo a casa a
studiare. Per questa ragione, quando lo avvistavamo da lontano, ci defilavamo o
cambiavamo strada per non incrociarlo.
Era un insegnante di chiaro
livello universitario e, infatti, ci fece adottare sin dall’inizio un libro di
letteratura in uso nelle Università. Ricordo che la moglie era Preside in una
scuola superiore in Puglia e che avevano una sola figlia. Alla chiusura delle
scuole andavano in Spagna e frequentavano i circoli letterari spagnoli.
In terza ragioneria,
tuttavia, avemmo una sgradita sorpresa. Il professor Romano aveva avuto un
avvicinamento al suo luogo di residenza e non era più il nostro insegnante di
spagnolo. Rimanemmo molto più che dispiaciuti. Per più di qualcuno di noi era
diventato un insostituibile modello da imitare.
Sicuramente ha influito in
maniera positiva sulla nostra vita. La sua mancanza divenne incolmabile: non ho
mai più conosciuto un insegnante che l’abbia potuto uguagliare.
Lo rividi qualche anno dopo alle Terme di
Fiuggi; vi ero andato per la cura dell’acqua a seguito di una calcolosi renale.
Anche in quel caso non si smentì. Passeggiavamo insieme. Dopo aver bevuto, si
ritirava nei bagni per urinare mentre io, che avevo ingurgitato quasi due litri
d’acqua, non avevo alcuno stimolo. Se ne accorse e mi disse: “Guarda che se non
curi di andare a urinare, berrai fino a scoppiare”. Ascoltai il suo consiglio e
dopo qualche minuto mi unii a tutti gli altri che, ritmicamente, scomparivano
infilandosi nei bagni!
21 novembre 2009 (rivisto il 9 settembre 2019)
P.S. Testo della lettera inviata dal Prof. Romano
dopo che era andato via da Battipaglia, in risposta agli auguri formulatigli
dai suoi alunni.
“Istituto Tecnico
Commerciale Statale – Galatina (Lecce) – Sala Professori.
Carissimi,
ricambio i vostri augurali saluti; siete sempre molto gentili. Possa l’anno
nuovo essere foriero di ogni Vostra aspirazione.
Studiate, migliorate, siate buoni e dignitosi. Fate della scuola il
Vostro tempio. Fissatevi un’unica meta: la Scuola.
Greco, Cerone, Chiarolanza, Malandrino,
Truono, Messina e a tutti gli altri, ancora i miei ricordi. Gaetano Romano”.